Cambiamento Climatico, Disastro Ambientale e violazione dei Diritti Umani: il nesso c’è anche per la Cassazione, un articolo di Eva Maschietto su RGA Online
Il diritto individuale alla vita deve essere inteso in senso ampio: le situazioni di degrado ambientale, il cambiamento climatico e gli effetti dello sviluppo insostenibile possono compromettere l’effettivo godimento dei diritti umani individuali e devono essere valutate in concreto ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria.
Ai fini del riconoscimento, o del diniego, della protezione umanitaria prevista dall’art. 19, commi 1 e 1.1, del D. Lgs. n. 286 del 1998, il concetto di “nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale” costituisce il limite minimo essenziale al di sotto del quale non è rispettato il diritto individuale alla vita e all’esistenza dignitosa. Detto limite va apprezzato dal giudice di merito non soltanto con specifico riferimento all’esistenza di una situazione di conflitto armato, ma con riguardo a qualsiasi contesto che sia, in concreto, idoneo ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all’autodeterminazione dell’individuo al rischio di azzeramento o di riduzione al di sotto della predetta soglia minima, ivi espressamente inclusi – qualora se ne ravvisi in concreto l’esistenza in una determinata area geografica – i casi del disastro ambientale, definito dall’art. 452-quater c.p., del cambiamento climatico e dell’insostenibile sfruttamento delle risorse naturali.
La prima decisione della Cassazione in materia di cambiamento climatico è un’ordinanza di fine febbraio 2021 che, sulla scia di un recente orientamento internazionale, ha riconosciuto la rilevanza degli effetti negativi sull’ambiente in tema di politiche migratorie, affermando che disastro ambientale, cambiamento climatico e insostenibile sfruttamento delle risorse naturali sono condizioni rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.
Il caso è senz’altro clamoroso anche se nessuna eco è risuonata da parte della stampa non specializzata.
L’occasione è data dal ricorso contro il decreto di un Tribunale marchigiano (la cui sede è resa anonima), che aveva negato il riconoscimento dello status di rifugiato ai fini umanitari, richiesto dal ricorrente sulla base della sussistenza del disastro ambientale della zona del delta del Niger.
A fronte di una motivazione che la suprema corte definisce “ampia”, con la quale il giudice del merito aveva riconosciuto la grave situazione di dissesto ambientale determinata da ingenti sversamenti di petrolio che negli ultimi trent’anni hanno contaminato vaste zone, a seguito dello sfruttamento della risorsa naturale da parte dell’industria petrolifera mondiale, il ricorrente non era comunque riuscito a ottenere il permesso di soggiornare nel nostro paese, sulla base della considerazione che il livello di violenza generalizzata comprovato nella situazione specifica non sarebbe stato tale da integrare il conflitto armato o una situazione equivalente.
Il fondamento per l’applicazione delle norme relative alla protezione speciale, invece, secondo la Cassazione c’è, ed è necessario ritornare al merito (di qui l’ordinanza con rinvio) per valutarne gli aspetti concreti.
Allo stato di gravissima tensione politica e sociale del paese determinata da sabotaggi, danneggiamenti, rapimenti e aggressioni, si accompagna – infatti – una devastante degradazione ambientale del delta del Niger, di cui il primo giudice del merito non sembra aver tenuto debito conto. La popolazione locale, infatti, pur subendo uno stato di vero e proprio disastro ambientale non beneficia in alcun modo della risorsa naturale del proprio paese, essendone – in realtà – sostanzialmente pregiudicata, proprio per le lotte intestine che la situazione determina.
La Corte di Cassazione qui riprende direttamente uno dei più recenti orientamenti internazionali della giurisprudenza in materia di cambiamento climatico: si tratta il caso Teitiota c. Nuova Zelanda deciso davanti al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite (UN Doc. CCPR/C/127/D/2728/2016) che ha riconosciuto a certe condizioni la rilevanza degli effetti del cambiamento climatico in tema di politiche migratorie (non refoulement – divieto di rimpatrio), dovendosi dedurre che la degradazione ambientale che impedisca a un soggetto la vita in una determinata area del mondo può assurgere a elemento di rilievo per il riconoscimento dello status di rifugiato (ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951).
Il Signor Teitiota, Cittadino di un piccolo stato dell’Oceania, a causa dell’innalzamento degli Oceani si era trasferito in Nuova Zelanda, presso la quale aveva richiesto il riconoscimento dello status di rifugiato nel 2012, negatogli sia dall’autorità neozelandese sia da tre gradi di giudizio. Esauriti, quindi, i rimedi interni il Signor Teitiota si è rivolto al Comitato per i diritti umani dell’ONU, sulla base dell’articolo 5 e dell’art. 6 del protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici, affermando la violazione del diritto alla vita operata dalla Nuova Zelanda.
Il Comitato pur non avendo accolto la sua richiesta ha fornito una serie di aperture e spunti, ad esempio osservando che il signor Teitiota non aveva dimostrato di non aver accesso all’acqua potabile (deducendosi, quindi, che ove tale prova fosse stata fornita, il diritto alla vita sarebbe stato leso senza dubbio). La decisione in inglese, francese e spagnolo e’ consultabile a questo link.
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