appalti e decreto «cura Italia»

Appalti privati: la sorpresa.

Davvero il Parlamento in sede di conversione del Decreto Cura Italia ha disposto una generalizzata proroga legale dei contratti di appalto privati di 90 giorni dalla fine dell’emergenza?

È ammissibile una simile ingerenza dello Stato nell’autonomia privata?

Si tratta di una misura incostituzionale?

Proposta di una lettura costituzionalmente orientata del comma 2terdell’art. 103 del Decreto Cura Italia

Apparentemente annegata nelle numerose modifiche del DL Cura Italia operate dalla legge di conversione (l. 24 aprile 2020 n. 27), c’è una previsione che per impatto concettuale ed economico non è esagerato definire enorme.  Soprattutto se letta in modo testuale e svincolato dal contesto.

Si tratta del comma 2ter dell’art. 103 del Decreto – intitolato “sospensione dei termini nei procedimenti amministrativi ed effetti degli atti amministrativi in scadenza” – che testualmente prevede che “nei contratti tra privati, in corso di validita’ dal 31 gennaio 2020 e fino al 31 luglio 2020, aventi ad oggetto l’esecuzione di lavori edili di qualsiasi natura, i termini di inizio e fine lavori si intendono prorogati per un periodo pari alla  durata della proroga di cui al comma 2. In deroga ad ogni diversa previsionecontrattuale, il committente e’ tenuto al pagamento dei lavori eseguiti sino alla data di sospensione dei lavori.

Letto isolatamente, questo comma costituisce una previsione di inaudita ingerenza dello Stato nell’ambito dell’autonomia privata, non supportata da alcuna esigenza di tutela di un superiore interesse costituzionalmente garantito e, quindi, potenzialmente soggetta alla scure della Corte Costituzionale, se non interpretata in modo necessariamente restrittivo e coerente con la sua funzione.

Vediamo perché: la disposizione prevede, in modo tanto generico quanto semplicistico che “nei contratti tra privati”, e quindi in un ambito naturalmente estraneo a quello disciplinato dal medesimo articolo che appunto dovrebbe aver riferimento i soli procedimenti amministrativi, “in corso di validità dal 31 gennaio 2020 e fino al 31 luglio 2020” – e quindi, da un lato, retroattivamente, prevedendo una finestra che non solo si applica ai contratti in corso, superando una disciplina pattizia che forse non poteva aver tenuto conto del Covid-19, ma imponendo tale disciplina anche in un qualsiasi contratto ancora da stipulare – vi sia una proroga fissa “pari alla durata della proroga di cui al comma 2” e cioè pari a 90 giorni decorrenti dalla “dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza”.

Sino al 29 ottobre 2020, se si dovesse leggere la norma in modo tecnico.

Allo stato, in vigenza della Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, supportata dal Codice della Protezione Civile (D. Lgs. n. 1 del 2 gennaio 2018), lo stato di emergenza nazionale (per un evento di cui all’art. 7 del medesimo Codice e come deliberato dall’art. 24) perdurerà sino al 31 luglio 2020, ma non è necessaria una “dichiarazione di cessazione di tale stato”, peraltro possibile (ai sensi del comma 4 dell’art. 24 del medesimo Codice).

Il pasticcio normativo è quindi servito.

I contratti di cui si parla sono quelli “aventi ad oggetto l’esecuzione di lavori edili di qualsiasi natura”, con buona pace dei contratti accessori (direzione lavori, sicurezza, collaudatori etc.), con un lapsus calami veramente significativo che riconduce la provenienza della previsione normativa ai soggetti che tali lavori eseguono.

Per questi contratti – prosegue la disposizione –  “i termini di inizio e finelavori si intendono prorogati per un periodo pari alla durata della proroga di cui al comma 2”. Si noti bene: “i termini di inizio e fine lavori” esclusivamente e non gli altri termini intermedi. Chi ha scritto la disposizione, forse, non si è rammentato dell’esistenza delle milestone, o forse – come ci auguriamo più sotto – non ha inserito tali termini per una ragione specifica, che ci consentirà di “salvare” la disposizione dalla censura di illegittimità.

La disposizione si conclude con una previsione “paracadute” che poco ha a che fare con quanto la norma ha disciplinato fino a quel momento, che specifica che: “In deroga ad ogni diversa previsione contrattuale, il committente è tenuto al pagamento dei lavori eseguiti sino alla data di sospensione dei lavori”. 

Ora, tale previsione appare completamente fuor d’opera non tanto per il suo contenuto – che appare condivisibile nella sostanza e coerente con l’esigenza di dare liquidità alle imprese, secondo quanto previsto dall’intero impianto del Cura Italia – essendo evidentemente orientato ad assicurare che i meccanismi contrattuali inseriti dai committenti nei contratti di appalto privati, dove i corrispettivi sono spesso maturati “a consuntivo” su contratti a corpo e à forfait, non operino in via pregiudizievole nei confronti di chi il lavoro lo ha effettivamente fatto.  Ma perché si riferisce ad una “sospensione dei lavori” che – sia pur prevedibile nella maggior parte dei casi degli appalti in corso in relazione all’esistenza del lockdown – non è mai oggetto di normazione nei commi precedenti (e che, peraltro, non è sempre applicabile nelle fattispecie disciplinate dal medesimo comma).  Basti pensare ai contratti sottoscritti, ma non ancora iniziati alla data del lockdown, che da lunedì prossimo 4 maggio – con tutte le cautele previste dal Protocollo per la sicurezza dei cantieri del 24 aprile 2020 – potranno iniziare e per i quali non vi è stata una sospensione dei lavori (ma solo una sospensione contrattuale).

Se la lettura della disposizione in esame dovesse estendere, quindi, sino a 90 giorni dalla cessazione dell’emergenza la durata di tutti i contratti di appalto privati, quando dal 4 maggio è possibile lavorare, ci troveremmo di fronte a una norma sproporzionata, se non addirittura spropositata, la cui legittimità costituzionale dovrebbe essere immediatamente messa in dubbio (per contrasto sia con il principio di libertà dell’iniziativa economica privata, ma soprattutto con il principio di proporzionalità), pur nella consapevolezza che un giudizio incidentale – anche se sollevato in sede cautelare – sarebbe incompatibile con i tempi utili ai contratti.

A questo riguardo, sappiamo che se esiste una lettura della norma che sia giustificata dalla sua interpretazione sistematica, funzionale e finalistica e che sia, nello stesso tempo, costituzionalmente orientata, cioè possa reggere alle censure di incostituzionalità inevitabilmente connesse a una prima interpretazione letterale, si debba preferire l’adesione a tale lettura, proponendone un’applicazione – in questo caso restrittiva – che ne salvi comunque il significato.

Mi sembra che questa fattispecie possa essere interpretata, quindi, come applicabile solo e soltanto a quei casi in cui – posta l’intervenuta sospensione dei termini amministrativi procedimentali previsti dai commi precedenti dell’art. 103 – ci si trovi in una situazione in cui in relazione a tale sospensione, vi sia la necessità di prorogare i termini degli appalti in maniera corrispondente per non veder scoperti tali appalti dal supporto normativo sottostante.

Quindi, solo ove, e nei limiti in cui, la sospensione o la mancata emissione o la imminente scadenza di uno dei diversi provvedimenti amministrativi (la cui varietà è nominata nei commi precedenti) determini la necessità di rinviare il termine iniziale o finale dell’esecuzione degli appalti privati, ovvero ove il termine di validità, di inizio e fine lavori di cui alle convenzioni urbanistiche, o ogni altro termine previsto nei piani attuativi determini la necessità di una modifica al contratto, vi sarà in automatico un differimento dell’inizio dell’attività o una proroga del termine di durata della stessa, corrispondente allo slittamento previsto per la corrispondente scadenza amministrativa.

Quest’interpretazione che, lo si ammette, riduce sensibilmente l’ambito applicativo della norma, sembra potersi giustificare proprio sulla base di due dati testuali: il primo che riguarda il rinvio – per il termine di proroga – a quanto previsto dal comma 2 (che appunto parla di inizio e fine lavori sulla base dei provvedimenti abilitativi previsti dal testo unico dell’edilizia). Il legislatore sembra così aver legato le due fattispecie, non prevedendo una proroga “secca” di tutti i contratti d’appalto indistintamente.

Il secondo dato testuale è proprio quello riferito alla tipologia di termini che “si intendono prorogati”, che sono solo quelli di inizio e di fine lavori (quelli logicamente collegati ai diversi provvedimenti abilitativi).

Peraltro anche la dizione “si intendono prorogati” – unica nel Decreto – e non “sono prorogati” (o decorrono da, con dizioni che si rinvengono in altre parti del Decreto, si vedano gli artt. 100, 103bis etc., molto più dirette) contribuisce ad avvalorare un’interpretazione che faccia pensare che questa “proroga” non sia altro che una fictio juris strumentale alla necessità di coordinare la durata dei provvedimenti amministrativi con le durate contrattuali.

Questa mia interpretazione, che confido sarà bene accolta nella pratica, vuole preservare tutti i soggetti della filiera delle costruzioni che, diversamente, si troverebbero ad affrontare contenziosi incompatibili con una ripresa serena delle attività. Che tutti ci auguriamo, nonostante le imperfezioni normative con le quali ci confrontiamo ogni giorno.